Il ‘”visitattore” del museo, splendida provocazione del Map

di GIANCARLO SACRESTANO

Il museo è custode della memoria. Gli amici del MAP, il Museo Mediterraneo dell’Arte Presente di Brindisi, lo sanno benissimo e al visitatore, somministrano un dosaggio costante, ma alto, di stimolazioni sensoriali, perché la memoria che è conservata nel prezioso scrigno di Via Tarantini, civ. 37, possa alimentare di consapevolezza le sue giornate future. Il grande drammaturgo Eduardo De Filippo affermava che “la consapevolezza del passato, rende possibile l’accettazione del presente”, ma tant’è, di consapevolezza dell’oggi, se ne vede in giro assai poca.

Gli amici del MAP sono avvertiti: le provocazioni dovranno continuare!
Qualche giorno fa, ennesima stimolazione-provocazione della equipe guidata dal prof. Massimo Guastella. Tra le sculture, i quadri e le mura del MAP, si è materializzato il “visitattore” museale.

Lo scuro abito dignitoso che indossava, ne avrebbe definito lo status di conforme fruitore d’arte, tutto compreso, ma piccole macchie di colore, pezzi di stoffe, che schizzavano la giacca, residui di dialoghi d’arte da cui si era lasciato contaminare, definivano i tratti inediti di quell’alterità artistica del museo.

Ogni opera lascia tracce su chi le ha fruite, mangiate! (il verbo più abusato dalla nomenclatura culturale, deriva proprio dalla medesima radice che ha generato la parola frutto). E’ vero altresì che su ogni opera rimangono impresse le tracce di chi le ha visitate. (La decisione di molti musei di consentire i “selfie” altro non significa)

Sotto le sembianze fisiche offerte dall’attore teatrale Simone Franco, chi ha voluto, ha assistito ad un esempio di dialogo tra i significati delle sculture e il visitatore, che investe di sé e si lascia investire, interrogare in una polimorfa simbologia linguistica, da ogni singola pietra, scultura, tela, anfratto murale del museo. Ancor prima che razionale, l’impatto è polisensoriale. L’anima del “visitattore” si lascia rapire e tutto il suo corpo si lascia leggere (scannerizzare) dall’opera, ansioso, spasmodicamente paranoico, nella paura che oggi, abbia smesso di avere valore quello che diceva Socrate nel Teeteto di Platone:

“Sopravvisse Mnemosine alla distruzione di Eleutere?
ovvero che il dono (doron) di Mnemosine, madre di tutte le Muse, è come quella cera in cui tutto ciò che desideriamo conservare nella memoria verrà ad incidersi in rilievo, per lasciarvi l’impronta di anelli, di fedi (alliances) e di sigilli?”

Pescando nel suo vasto bagaglio artistico, Simone Franco, si è fatto leggere dalle opere, i loro mille significati di cui il visitattore diventa il significante, guidando a nuova alfabetizzazione chi dinanzi alle opere sta, invece, conchiuso tra le proprie paranoie e i propri paraculismi. L’arte è dialogo che si rinnova per ognuno che voglia alimentarsene.

Scoprire, definire, al nostro tempo, quello “delli uomini falsi e bugiardi” un codice di fruizione del bene culturale, significa innanzitutto liberare, ognuno dal proprio sé, dalle sovrastrutture ipocrite che lo conformizzano ad un modello inutile e senza storia, senza simboli di riferimento. Domenico De Masi afferma che attualmente non esiste alcun modello sociale capace di raccontare un progetto di futuro condivisibile. La estrema atomizzazione delle società costringe tutti a ricercare il proprio progetto altrove, cadendo nell’assurda condizione che Seneca descrisse incisivamente nella massima: “nessun vento è favorevole al marinaio che non sa in quale porto approdare”.

La mancanza di un progetto comune faceva rilevare che nello stesso momento dell’esperienza al MAP, in altra parte della città si discettava della necessità di traslare un opera scultorea dalla sua collocazione in piazza del Popolo – a cui nessuno ha mai parlato e manco ha fatto domande – al lungomare – ragioni culturali forse tutte intelligibili nell’adagio dialettale “ a ci faci e sfaci, no’ perdi mai tiempu!” (traduci: fancazzismo).

Mi pare doveroso invece fare un riferimento assai sentito ad una pagina di teatro scritta da Simone Franco “Il mulino degli sconcerti” per il venticinquesimo della pubblicazione della legge 180, nota come legge Basaglia che chiuse in Italia, la tragica epoca degli ospedali psichiatrici. Per scriverla egli partì dalle memorie di Gino Sandri, pittore, ridotto – per non mai precisate motivazioni politiche – al manicomio.
“Come non ricordare i giri di ore, giorni, settimane, mesi, attorno ai tavoli delle Sale Residenza Misti, giri d’un centinaio d’uomini per sala vociferanti le loro follie o lo scherno alle altrui, o assorti in giuochi di schiamazzo o in concentrazioni di letture impossibili e io balzante da una finestra all’altra cercando farmi piccino o non esser visto dall’infermiere di guardia e disegnare, disegnare, disegnare tutti i volti e gli scorci possibili”.
(G. Sandri pagina sciolta diario)

Da quella pagina di teatro in cui si denunciava l’atrocità dell’oblìo terapeutico contro la memoria, è necessario partire per resettare un processo che, dilagato per ogni anfratto sociale impedisce ai più, di porsi dinanzi ad un opera del creato o dell’uomo e parlarle. Ritrovando la forza di parlare noi alle sculture, oltree riuecire ad ascoltarle ci permetterà di riavviare il sano percorso di conservare la memoria e la scienza, preservandole dalla dimenticanza rendendo giustizia al più levato adagio dantesco “fatti non foste per viver come bruti ma per seguire virtute e conoscenza”.